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Distastri

Autospurgo H24 da Velletri in tutta la città di Roma

Se vivi a Roma  o nella sua vasta provincia probabilmente ti sarai servito dei servizi di spurgo per privati. Un’autobotte, il mezzo principale di una ditta di spurgo, è il mezzo ideale per far fronte a diverse esigenze tra cui:

  • otturazione di fognature
  • allagamento cantine e vani interrati
  • scavi per fognature
  • pulizia pozzetti neri e fosse biologiche
  • pulizia tombini e grate di cortili
  • ispezioni alle condotte tramite videoispezione (senza rompere le murature)

allaagamentiSe non hai trovato la tua azienda di fiducia oppure essendo agosto non riesci a trovare nessuna ditta di spurgo disponibile contatta questo autospurgo su Roma , segui il link oppure telefona direttamente al loro numero di telefono 337 775441.

Si tratta di una ditta di spurgo attrezzata nel pronto intervento con sede a Velletri ma operativa in tutto il centro di Roma.  Potete richiedere ai professionisti un preventivo se l’intervento è programmabile (come nel caso dello svuotamento di fosse biologiche) mentre vi conviene chiamare il numero diretto se l’intervento è urgente (come il prosciugamento dei vani allagati dopo un temporale).

Recentemente dopo i violenti temporali estivi ed invernali a Roma si sono creati forti disagi soprattutto per gli esercenti che hanno su strada l’attività commerciale. L’acqua spesso entra creando danni a materiale elettrico e all’arredamento, spesso ripulire nel minore tempo possibile dal fango e dall’acqua significa tantissimo in termini economici.

Autospurgo Roma ha prezzi economici e più importante, tempi di intervento rapidi! Contattateli subito e non resterete delusi.

Marea nera: gli ambientalisti accusano la BP di non mantenere le promesse

Ancora polemiche per la British Petroleum, la società responsabile della piattaforma esplosa nel Golfo del Messico che ha dato origine a uno dei più grandi disastri ecologici non solo della storia americana, ma di quella mondiale. La buona notizia èche l’ultimo ”tappo” immerso nel mare da parte della BP sembra reggere ormai da circa una settimana, ma non si placano le critiche all’azienda inglese e tutti coloro che hanno presto parte all’operazione.

Gli ambientalisti di alcune associazioni Usa denunciano che per far fronte all’emergenza le migliaia di navi impegnate nella pulizia del mare, nel salvataggio degli animali e quant’altro (stiamo parlando della più grande flotta messa in mare dagli Usa dallo sbarco in Normandia nel cuore della seconda guerra mondiale) avrebbero causato a loro volta danni ecologici.

Sarebbero infatti state messe in atto tecniche di pulizia del mare non testate, che dunque potrebbero aver causato danni in mare aperto, anche se la pulizia dell’acqua era una priorità assoluta e quindi qualche rischio era inevitabile correrlo.

La BP è sotto il tiro degli ambientalisti perchè ha anche richiamato un quarto della flotta che aveva messo a disposizione per le operazioni post-disastro, probabilmente in seguito alla riuscita dell’ultimo dei tanti, anzi, tantissimi tentativi di tappare la falla che permetteva la fuoriuscita di petrolio ormai da molte settimane, azione che ha fatto pensare agli ambientalisti (e non solo) che la British Petroleum stesse scappando dal Golfo per non mantenere la promessa di aiutare chi è stato danneggiato dalla marea nera e di ripulire l’acqua nel più breve tempo possibile.

Uccelli colpiti dal petrolio: qualcuno propone l’eutanasia

Ogni disastro petrolifero lascia dietro di sé conseguenze immani dal punto di vista ecologico e degli ecostemi e i simboli di queste sciagure sono spesso le immagini di poveri e innocenti animali, coperti di petrolio e destinati a una morte lenta e atroce se non salvati dalle mani delle migliaia di volontari che cercano ogni volta di salvare loro la vita.

Una biologa tedesca si è però schierata contro questi tentativi di salvataggio, dichiarando, dati alla mano, che non procurano altro che inutili sofferenze agli animali, per cui al contrario sarebbe più dignitosa una sorta di eutanasia. I dati portati dalla studiosa a supporto della sua tesi, ricavati da studi compiuti in seguito ai più grandi disastri petroliferi degli ultimi 40 anni, non sembrano lasciare spazio a dubbi: <<Secondo studi attendibili, gli uccelli ripuliti finiscono col soffrire più a lungo e fanno una morte molto dolorosa. Solo l’uno per cento è ancora vivo a un anno dal salvataggio e tra questi ben pochi riescono riprodursi>> ha spiegato la donna, che poi ha aggiunto come la vita media degli uccelli salvati dopo il rilascio non superi i sei giorni.

Queste dichiarazioni hanno aperto il dibattito sul tema negli USA, dove è ancora di stringente attualità il disastro ecologico causato dalla fuoriuscita di greggio dalla piattaforma petrolifera della BP, che ha investito un grande numero di volatili.

Per quanto sembri disumano è meglio praticare l’eutanasia sugli animali o tentare di salvarli, sperando di riuscirvi? A questa domanda la risposta non può che essere personale.

Per la Cina nuovamente pericolo alghe

La Cina è di nuovo in guerra contro le alghe. Dopo il 2008, quando la massa di alghe verdi presenti nel mare, spinte dai venti, aveva addirittura rischiato di modificare le date o i luoghi delle competizioni veliche alle olimpiadi di Pechino, il problema si è ripresentato, anche se al momento attuale non sembra insormontabile.

Nel mare a est della Cina stato infatti avvistato un ammasso di alghe verde brillante di dimensioni nell’ordine dei 300 chilometri quadrati. Nel 2008 per ovviare al problema si era ricorso addirittura all’esercito, al reclutamento di volontari e al noleggio dei pescherecci della zona da parte delle autorità, ma oggi la situazione è diversa: non vi è un evento impellente da garantire per evitare una figuraccia mondiale e soprattutto anche i danni economici sono molto limitati, in quanto la pesca nella zona è temporaneamente sospesa a causa di uno periodo di ripopolamento.

I problemi si presenteranno nel momento in cui l’isolotto di alghe giungerà a riva sospinto dai venti. Dovrebbe approdare in una zona balneare, ma il governo sta già istruendo la popolazione su come comportarsi per la pulizia delle spiagge e mettendo in allerta i pescatori per le operazioni in mare, con l’obiettivo di limitare al minimo gli effetti sul turismo locale in vista dell’estate.

Non si sa ancora con certezza quale sia la causa del fenomeno, se sia naturale o se le attività umane ne siano responsabili, ma senza dubbio bisogna fare qualcosa e per ora il governo dello stato più popoloso al mondo si è mostrato all’altezza.

La BP e la censura sulle fotografie derivanti dal disastro

Secondo quanto riportano il “Mother Jones” e il “Daily News”, la compagnia petrolifera britannica BP, che da già un bel po’ fa tenere i nostri occhi puntanti sulla televisione per via del disastro ambientale, avrebbe vietato agli addetti ai lavori che tentano di porre fine a questa marea nera di petrolio di condividere e vendere ai giornali le fotografie degli animali morti a causa della loro irresponsabilità.

Questa azione assomiglia un po’ ad una censura che in teoria, secondo il loro ragionare, dovrebbe non aggravare ancor di più la loro situazione di fronte all’opinione pubblica. Ma, fortunatamente, non ci troviamo un paese retrogrado, perciò un giornalista del “Daily News” che si era accorto del “divieto-censura” ha annunciato questa fatto accusando la BP di aver preso questa decisione perché non vuole aumentare il suo stato di disastro di fronte agli occhi del presidente americano Obama. Dopo aver detto ciò, ha mostra fotografie di uccelli, delfini e tartarughe morte, avvolte da una sostanza scura e vischiosa che cercano in qualche modo di pulirsi, ma che rimangono avvelenati. Per il “Mother Jones”, invece, parla Kate Sheppard che cerca, in qualche modo, di mantenere il conto degli animali che giorno dopo giorno muoiono per colpa del petrolio che si riversa nelle acque; fino ad ora si contano: 444 uccelli, 222 tartarughe di mare e 24 mammiferi. E sempre secondo Sheppard, come accadde per la catastrofe di Exxon Valdez, sicuramente molti animali morti si saranno affondati verso il fondale dell’oceano.

Per quanto ancora dovrà andare avanti questo disastro ambientale?

I profughi del clima hanno superato quelli delle guerre secondo Legambiente

I cambiamenti cimatici iniziano anche ad avere effetti sulla vita di intere popolazioni. Secondo il dossier ”Profughi ambientali” di Legambiente sono oggi 50 milioni (e si calcola saranno il quadruplo tra quarant’anni) le persone costrette a lasciare la casa natale per fenomeni quali lo scioglimento dei ghiacci, la siccità, gli eventi climatici estremi quali alluvioni e uragani e l’innalzamento del livello del mare.

Secondo gli studi dell’associazione ambientalista presentati recentemente a Firenze nel corso della manifestazione ”Terra futura 2010” le tipologie di cause più frequenti che spingono gli uomini a lasciare, sia temporaneamente che definitivamente, le loro abitazioni sono legate a eventi meteo estremi: fino qualche anno addietro era invece la guerra a causare la maggioranza delle ”migrazioni”. Nel 2008 infatti a fronte di 4,6 milioni di persone costrette a spostarsi a causa dei conflitti in corso, ben 20 milioni lo hanno fatto per fenomeni ambientali.

Per alcuni di questi profughi il mondo, sia attraverso gli stati che attraverso i privati, si mobilita in maratone di solidarietà, come nel caso dell’uragano Katrina o dello tsunami nel Sud-Est asiatico, ma per tutti coloro che vivono in territori soggetti a cambiamenti lenti e graduali, anche se non meno distruttivi, nessuno muove un dito, forse anche perchè non informato della situazione.

Nel nordafrica per l’avanzare del deserto vengono persi migliaia di metri quadrati di terra coltivabile all’anno, con notevoli danni per l’economia locale, in Lousiana il mare avanza minacciando le case e l’erosione ”mangia” le coste turche. Sono queste persone le più in pericolo: quasi nessuno conosce la loro situazione e quindi non è in grado di fornire loro aiuti concreti.

La marea nera fa parlare USA e Cuba, intanto le tartarughe muoiono

Un disastro ambientale è riuscito laddove avevano fallito decenni di diplomazia. La marea nera causata dall’incidente alla piattaforma della British Petroleum nel Golfo del Messico sta minacciando le coste degli Stati Uniti così come quelle di Cuba. Fonti anonime del Dipartimento di Stato, portate alla ribalta dai media americani, affermano che ci sarebbero stati colloqui tra i due paesi per trovare una linea comune nel contenimento del petrolio che sta ancora fuoriuscendo dalla falla, resa pubblica il 26 aprile.

Al momento, a settimane dall’incidente, le ricadute sull’ecosistema marino del Golfo sono ancora non quantificabili. Per il momento possono parlare solo i dati: 156 tartarughe morte (dato aggiornato al 30 aprile) e divieto di pesca sul 19% delle acque di competenza federale statunitense, pari a 120mila metri quadri di superficie. I danni alla fauna ittica non sono ancora stati resi noti, ma sono facilmente immaginabili; le spese di pulizia sono ovviamente a carico della compagnia petrolifera e si stimano di molto superiori al miliardo di dollari (al giorno d’oggi ne sono già stati spesi circa 650 milioni).

Oltre alle tartarughe e ai pesci sono in pericolo anche specie caratterizzanti della zona, quali i granchi reali. Gli scienziati e gli animalisti stanno collaborando nel dotare alcune tartarughe di trasmettitori satellitari, che permettono di scoprire tempestivamente lo spiaggiamento degli animali e ai volontari di intervenire in modo mirato per cercare di salvare gli animali da morte certa.

La chiazza  si allarga seminando morte nell’oceano. Serviva un evento così eccezionale per far parlare di nuovo due vecchi nemici.

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