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Marea nera: gli ambientalisti accusano la BP di non mantenere le promesse

Ancora polemiche per la British Petroleum, la società responsabile della piattaforma esplosa nel Golfo del Messico che ha dato origine a uno dei più grandi disastri ecologici non solo della storia americana, ma di quella mondiale. La buona notizia èche l’ultimo ”tappo” immerso nel mare da parte della BP sembra reggere ormai da circa una settimana, ma non si placano le critiche all’azienda inglese e tutti coloro che hanno presto parte all’operazione.

Gli ambientalisti di alcune associazioni Usa denunciano che per far fronte all’emergenza le migliaia di navi impegnate nella pulizia del mare, nel salvataggio degli animali e quant’altro (stiamo parlando della più grande flotta messa in mare dagli Usa dallo sbarco in Normandia nel cuore della seconda guerra mondiale) avrebbero causato a loro volta danni ecologici.

Sarebbero infatti state messe in atto tecniche di pulizia del mare non testate, che dunque potrebbero aver causato danni in mare aperto, anche se la pulizia dell’acqua era una priorità assoluta e quindi qualche rischio era inevitabile correrlo.

La BP è sotto il tiro degli ambientalisti perchè ha anche richiamato un quarto della flotta che aveva messo a disposizione per le operazioni post-disastro, probabilmente in seguito alla riuscita dell’ultimo dei tanti, anzi, tantissimi tentativi di tappare la falla che permetteva la fuoriuscita di petrolio ormai da molte settimane, azione che ha fatto pensare agli ambientalisti (e non solo) che la British Petroleum stesse scappando dal Golfo per non mantenere la promessa di aiutare chi è stato danneggiato dalla marea nera e di ripulire l’acqua nel più breve tempo possibile.

La BP e la censura sulle fotografie derivanti dal disastro

Secondo quanto riportano il “Mother Jones” e il “Daily News”, la compagnia petrolifera britannica BP, che da già un bel po’ fa tenere i nostri occhi puntanti sulla televisione per via del disastro ambientale, avrebbe vietato agli addetti ai lavori che tentano di porre fine a questa marea nera di petrolio di condividere e vendere ai giornali le fotografie degli animali morti a causa della loro irresponsabilità.

Questa azione assomiglia un po’ ad una censura che in teoria, secondo il loro ragionare, dovrebbe non aggravare ancor di più la loro situazione di fronte all’opinione pubblica. Ma, fortunatamente, non ci troviamo un paese retrogrado, perciò un giornalista del “Daily News” che si era accorto del “divieto-censura” ha annunciato questa fatto accusando la BP di aver preso questa decisione perché non vuole aumentare il suo stato di disastro di fronte agli occhi del presidente americano Obama. Dopo aver detto ciò, ha mostra fotografie di uccelli, delfini e tartarughe morte, avvolte da una sostanza scura e vischiosa che cercano in qualche modo di pulirsi, ma che rimangono avvelenati. Per il “Mother Jones”, invece, parla Kate Sheppard che cerca, in qualche modo, di mantenere il conto degli animali che giorno dopo giorno muoiono per colpa del petrolio che si riversa nelle acque; fino ad ora si contano: 444 uccelli, 222 tartarughe di mare e 24 mammiferi. E sempre secondo Sheppard, come accadde per la catastrofe di Exxon Valdez, sicuramente molti animali morti si saranno affondati verso il fondale dell’oceano.

Per quanto ancora dovrà andare avanti questo disastro ambientale?

La marea nera fa parlare USA e Cuba, intanto le tartarughe muoiono

Un disastro ambientale è riuscito laddove avevano fallito decenni di diplomazia. La marea nera causata dall’incidente alla piattaforma della British Petroleum nel Golfo del Messico sta minacciando le coste degli Stati Uniti così come quelle di Cuba. Fonti anonime del Dipartimento di Stato, portate alla ribalta dai media americani, affermano che ci sarebbero stati colloqui tra i due paesi per trovare una linea comune nel contenimento del petrolio che sta ancora fuoriuscendo dalla falla, resa pubblica il 26 aprile.

Al momento, a settimane dall’incidente, le ricadute sull’ecosistema marino del Golfo sono ancora non quantificabili. Per il momento possono parlare solo i dati: 156 tartarughe morte (dato aggiornato al 30 aprile) e divieto di pesca sul 19% delle acque di competenza federale statunitense, pari a 120mila metri quadri di superficie. I danni alla fauna ittica non sono ancora stati resi noti, ma sono facilmente immaginabili; le spese di pulizia sono ovviamente a carico della compagnia petrolifera e si stimano di molto superiori al miliardo di dollari (al giorno d’oggi ne sono già stati spesi circa 650 milioni).

Oltre alle tartarughe e ai pesci sono in pericolo anche specie caratterizzanti della zona, quali i granchi reali. Gli scienziati e gli animalisti stanno collaborando nel dotare alcune tartarughe di trasmettitori satellitari, che permettono di scoprire tempestivamente lo spiaggiamento degli animali e ai volontari di intervenire in modo mirato per cercare di salvare gli animali da morte certa.

La chiazza  si allarga seminando morte nell’oceano. Serviva un evento così eccezionale per far parlare di nuovo due vecchi nemici.

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